il Paliotto
 

Per sapere cos’è un paliotto, basta entrare in una chiesa ed osservare il fronte inferiore dell’altare che, spesso, è ornato da un pannello decorato.
Anticamente si rivestiva  questa parte dell’altare con il “pallium”, un drappo di tessuto che completava il corredo dei paramenti sacri usati durante lo svolgimento delle funzioni religiose.
Con il piviale, la stola, la pianeta e il manipolo, seguiva il colore dei vari periodi dell’anno liturgico (il verde per i tempi ordinari, il rosso per le ricorrenze dei Santi, dei Martiri e della Pentecoste, il viola durante l’Avvento e la Quaresima, il bianco in occasione delle solennità dedicate a Gesù e Maria).
Il paliotto era arricchito da decorazioni dipinte o ricamate che facevano riferimento alla pala che sovrastava l’altare e spesso portava le insegne della casata del committente, per lo più un prelato o un benefattore di nobili natali.
Il deperimento dovuto all’uso, all’umidità ed alla polvere, malgrado le smacchiature e le “rappezzature” (secondo il lessico in uso nei documenti d’archivio dell’epoca), portò, nel tempo, alla distruzione dei paliotti in tessuto.
Nel testo “Suppellettile liturgica nella Cattedrale di Ferrara in un inventario del 1462”, a cura di Enrico Peverada, si legge “Pro mense iuli 1413. In primis expendi pro seta zala et auro filato et pro seta alba ad reparandum palium pulcrum rubeum ubi sunt arma e cimeria d.ni Mantuae...”.
Evidentemente si era provveduto a riparare un paliotto rosso su cui erano impresse le armi dei marchesi Gonzaga di Mantova.
Fino ai primi decenni del 1400 non si hanno notizie di una produzione, a Ferrara, di paliotti in arazzo; quelli presenti venivano tessuti nei laboratori del Nord-Europa sulla base di cartoni preparati da pittori ferraresi.
Da un inventario del 1458 risulta che l’arazziere Pietro di Fiandra, assai stimato da Borso per la sua particolare maestria, consegnò alla Corte Estense “...cinque palii d’arazzo per altare con figure di Santi e fondo a verdure...”.
Nel 1474, il maestro Rubinetto di Francia abitava in Castel Nuovo dove, per una paga di cinque lire mensili (nota d’archivio del 7 giugno 1474), lavorava ad un paliotto in oro, argento, seta e lana, per la cappella ducale.
Nel disegno di questo arazzo, che rappresenta un compianto sul Cristo morto, per la tensione espressiva dei personaggi raffigurati nel gruppo, si è riconosciuto lo stile del pittore Cosmè Tura attivo, al tempo, presso la Corte Estense.
Nel ricco corredo nuziale di Lucrezia Borgia, non mancava un certo numero di paliotti d’altare in lana, in seta e in oro che raffiguravano episodi ispirati alle Sacre Scritture.
Il suo consorte, Alfonso I, dopo aver venduto i gioielli di Lucrezia per affrontare i costi della guerra contro Venezia, non esitò a mettere in vendita drappi, tappeti, arazzi e, fra questi, un paliotto d’altare assai prezioso e riccamente tramato in oro, e argento.
Altri paliotti in tessuto venivano confezionati e ricamati nel silenzio dei conventi, dalle mani solerti delle monache,in ore ed ore di preciso e paziente lavoro.
E, curiosamente, non soltanto le monache erano dedite al ricamo se, nel 1773, presso la sacrestia di San Cristoforo dei Certosini trovavano spazio “...un Palio d’altare e Pianeta di finissimo ricamo d’animali, frutti e fiori opera delle mani di un loro converso per nome Fra Bonaventura Cramburi di Osimo...” (G.A.Scalabrini).
Nella sacrestia della Cattedrale si conserva un ricco corredo d’epoca più recente di paliotti mobili, intelaiati e di varie misure, destinati all’altare maggiore e a quelli della Madonna delle Grazie e del S.S. Sacramento.
Sono confezionati in tessuti pregiati: broccati, damaschi, rasi e lampassi, ornati di passamanerie, trine e galloni dorati, resi ancora più preziosi da ricami che, per lo più, richiamano i simboli dell’Eucarestia o riportano, al centro, il monogramma di Maria racchiuso in ghirlande fiorite o sovrastato da una corona tempestata di cristalli e perle colorate.
Il paliotto più prezioso è quello esposto nel Museo del Duomo, tessuto in filato d’oro zecchino, con l’immagine di San Giorgio nell’atto di uccidere il drago.
Il rivestimento della parte anteriore dell’altare, anche se non in tessuto, continuò a chiamarsi paliotto seppure composto di materiali diversi come il legno, il marmo, il cuoio, il metallo, la paglia e la scagliola.
I paliotti in cuoio “corami d’oro”, dorati e dipinti in vivace policromia, decorati da fiori, frutti, ma anche da paesaggi, venivano usati durante i riti che si svolgevano nei giorni feriali, per sostituire quelli in tessuto prezioso più delicati e facilmente deperibili. Gli unici, presenti a Ferrara, sono esposti nella chiesa dei Santi Giuseppe, Tecla e Rita.
I più pregiati per il loro valore e la durata nel tempo, anche se più complessi da realizzare e quindi più costosi, sono i paliotti composti in tarsie marmoree, ossia quelle opere a commesso (committere – mettere insieme) in cui si inserivano, uno accanto all’altro, materiali diversi.
Il lavoro, che richiedeva pazienza e precisione, consisteva nel tagliare da sottili lastre di marmo, con seghe metalliche lisce, tessere di forme e colori differenti che venivano incastrate fra loro, secondo un preciso disegno, per essere poi levigate con polvere di pomice o di tufo.
Marmi pregiati, pietre dure, madreperla, giade, avorio, lapislazzuli e paste vitree venivano lavorati ed assemblati secondo un disegno, realizzando specchiature di splendido effetto.
Nella nostra città, eleganti tarsie marmoree compongono i paliotti d’altare di alcune chiese fra cui la Basilica di San Giorgio, il Duomo e Santa Francesca Romana.
Nel tempio di San Paolo e nella Cappella del Rosario della chiesa interna di Sant’Antonio in Polesine, si possono ammirare paliotti dipinti su tavole di legno di epoca seicentesca e, sempre in legno, ma scolpiti, li troviamo nella sacrestia delle chiese di San Giorgio e di San Girolamo.
Ben più numerosa, nelle chiese di Ferrara, è la presenza di paliotti in scagliola ad intarsio, realizzati con lo scopo di imitare le tarsie marmoree, ottenendo gradevoli effetti con minor spesa, sia per i tempi brevi richiesti nella lavorazione (circa tre mesi) che per il basso costo del materiale usato.
Le prime botteghe artigiane per la lavorazione della scagliola ad intarsio sono sorte nel XVII secolo a Carpi, centro modenese del Ducato Estense, e furono incrementate dalla facilità di reperire la materia prima, la scagliola, ricavata dalla selenite che abbonda nell’Appennino modenese.
La tecnica usata dagli scagliolisti carpigiani, tanto semplice quanto geniale, consisteva nello stendere la scagliola, mescolata a colla, sopra un piano di base della misura del paliotto da realizzare.
Come intelaiatura, vi posavano sopra un graticcio di canne sottili che ricoprivano con un altro strato sottile di scagliola chiamato “coperta”.
Tutto questo, nel giro di 15 o 20 giorni, si solidificava e la lastra ottenuta era pronta per essere accuratamente lucidata, con olio di oliva o di noce, per garantirne l’impermeabilità.
Si procedeva, riportandolo a spolvero, a realizzare il disegno di cui si incidevano i contorni e le figure da colorare. A questo punto vi si colava la scagliola liquida, tinta con pigmenti vegetali e minerali che, scivolando sulle parti lucidate, andava a riempire gli incavi.
Gli abili maestri carpigiani che operavano nei sec. XVII e XVIII portarono fuori dal confine del Ducato la loro arte, che andò espandendosi in tutta l’Emilia e la Lombardia e fra questi sono rimasti celebri i nomi di Carlo Gibertoni, di Annibale e Gaspare Grifoni, Giovanni Massa e “Guido Fassi da Carpi, inventore dei lavori in scagliola colorata...”.
I paliotti di scagliola, che ornano gli altari delle chiese di Ferrara, risalgono al 1600 e al 1700 e sono molto simili fra loro per lo stile dei decori: un medaglione con figure sacre è racchiuso da fregi e racemi dove, a presenze floreali si uniscono figure di animali con richiami allegorici ispirati a simboli liturgici.
Spesso portano riprodotti gli stemmi o, impressi in un cartiglio, i nomi dei committenti che li hanno donati alla chiesa o offerti come ex voto.
Nel tempio di San Cristoforo sono esposti quattordici paliotti in scagliola, uno per altare, che costituiscono il più completo e raffinato corredo di questo genere, presente in città. Severi, ma estremamente eleganti nel loro bicromatismo del bianco e del nero di base, sono incorniciati da greche, arabeschi e bordure a perfetta imitazione dei trafori del pizzo e delle trine; riproducono, nei medaglioni, figure di santi riconoscibili per i particolari iconografici che li caratterizzano.
Questa, del paliotto, è una forma d’arte che può passare inosservata se non addirittura dimenticata, mentre invece andrebbe analizzata con occhio attento e curioso non solo per la fantasia, la semplicità e la creatività del linguaggio, ma per il contenuto figurativo che non si limita soltanto ad illustrare un avvenimento sacro.
Infatti gli animali (il pellicano, il gallo, la farfalla, … ) non sono lì a caso, ma come i fiori (il garofano, il giglio, il tulipano, … ) hanno un significato liturgico ben preciso e che va interpretato, in chiave simbolica, secondo i dettami della Chiesa.

Maria Teresa Mistri Parente