Il frate che fabbricava il sapone
 

Dalla terra appena arata esalavano i vapori che si mescolavano all'odore acre dei camini accesi e, alla Mensa, si stava compiendo il rito che andava rinnovandosi ogni anno sul finire dell'autunno.
Le carni del maiale erano già state macellate in un trionfo di profumi, di voci festose, di abbondanti bevute.
Le braciole e i lombi per gli arrosti riposavano sotto il sale, e si strizzavano i ciccioli per liberarli il più possibile del grasso.
Salami, salsicce, prosciutti e cotechini pendevano ad asciugare, risvegliando sensazioni di benessere e sicurezza per i mesi futuri.
Le salame da sugo erano state confezionate, come sempre, con la massima cura e, per esaltarne il ricercato sapore, si erano macinate le carni più magre con pezzetti di lingua e di fegato, condendole con spezie ed aromi.
Ora si doveva annaffiare l'impasto con vino abbondante, il migliore, il più rosso.
Una volta insaccate, appese in un angolo buio ed asciutto, le "gran dame della salameria" come le chiamava il signor Luigi, dovevano riposare almeno un anno per raggiungere il massimo della riuscita e meritarsi l'ambito titolo di "salamina vecia".
Dopo le cinque ore di cottura necessarie, una volta servite in tavola, avrebbero soddisfatto i commensali più esigenti, così esperti nel giudicare la morbidezza dell'impasto ed il sapore robusto esaltato dal tocco di piccante.
Il taglio della calotta lasciava straripare il sugo rosso e pastoso, saturo di aroma e, al primo assaggio, tutti avrebbero concordato che anche questa volta la salamina era riuscita alla perfezione.
Dopo il periodo della macellazione, ai primi di dicembre di ogni anno, si presentava alla Mensa il frate che fabbricava il sapone. Giungeva dal convento di Santo Spirito a bordo di un carretto trainato da un mulo e avanzava lungo l'argine del Volano, sfiorando gli sterpi e gli arbusti imbalsamati dalla brina, a volte affondando in una poltiglia di neve.
Il suo arrivo era una festa: veniva accolto nella cucina al calore del fuoco scoppiettante nell'ampio camino.
Si calava il cappuccio, si toglieva il mantello e appariva nel suo ruvido saio, paonazzo ed intirizzito per il freddo.
La gente di casa gli si faceva attorno con tante domande curiose degli accadimenti di altri luoghi da cui proveniva.
Davanti ad una fumante ciotola di brodo, al pane fragrante e ad un bicchiere di vino, raccontava e raccontava.
Poi, frugando nelle tasche, ne traeva alcuni santini, con l'immagine di Sant'Antonio Abate, che avrebbero trovato posto nei libretti di preghiere, appesi alla porta della stalla a proteggere gli animali e sulla mensola del camino della cucina per scongiurare il pericolo d'incendi.
Come al solito avrebbe dormito nello stanzino di fianco alla scala sotto il loggiato: era angusto ma non troppo gelido perché confinava con la cucina.
Il mattino dopo, di buon ora, il frate dava inizio al suo lavoro che poteva protrarsi anche per più giorni.
La sua fucina era una stanza dove già ardeva il fuoco e qui, seguendo un'antica ricetta del suo convento che teneva gelosamente custodita, trasformava in sapone le cotiche, il grasso e gli ossi del maiale da poco macellato. Ossi, grasso e cotiche venivano fatti bollire a tutto fuoco in un calderone dove aveva steso sul fondo un canovaccio aggiungendo alla mistura una quantità segreta e ben precisa di soda caustica.
Il frate, con il volto acceso per il gran caldo del vapore, rimestava il miscuglio per amalgamarlo e portarlo a bollore. A questo punto, facendosi aiutare da Marzola, sollevava il canovaccio, lo appoggiava su un piano di legno e stendeva l'impasto con una staggia per uno spessore di tre dita.
Dopo un paio di giorni, usando una lama, divideva il sapone con molta precisione in tanti cubetti dal colore incerto, un colore ambra scuro, quasi grigio.
Trascorreva del tempo prima di poterli usare perché si dovevano rassodare e, una volta spento il camino, l'aria della stanza, tornata gelida, ne avrebbe favorito la stagionatura.
Dopo cena, davanti al focolare, mentre le donne di casa filavano o rattoppavano calzini, l'attenzione di tutti era rivolta ai racconti del frate.
Ogni tanto restava in silenzio poi, con le mani incrociate sul grembo e il sorriso sulle labbra, invitava al raccoglimento.
La sera sfumava così in un mormorio di litanie e di orazioni, mentre le ultime braci si smorzavano nella cenere.
Il giorno della partenza, non era ancora l'alba, se ne andava con la bisaccia colma di pane formaggio e noci, mezzo sacco di grano e due cotechini.
Spariva nella nebbia e l'eco ripeteva, sempre più lontano, il cigolio del carretto e il ritmare degli zoccoli del mulo.
Anche la luce fioca della lanterna, che ciondolava nel buio, ormai non si vedeva più.